
In Lombardia il prete palestrato e tatuato, star dei Social – “Ecco il mio messaggio”
In Lombardia sta facendo parlare di sé un sacerdote dal profilo decisamente fuori dagli schemi: don Giuseppe Fusari, 57 anni, meglio conosciuto sui social come art.priest2023. Con quasi 60mila follower su Instagram, un canale YouTube e un profilo TikTok, si è guadagnato il soprannome di “prete 2.0” grazie al suo modo innovativo di raccontare fede e arte.
Il suo aspetto incuriosisce quanto i contenuti che propone: fisico scolpito (frutto anche di gare di culturismo a cui ha partecipato), tatuaggi ben visibili sulle braccia, barba in stile hipster e un’evidente cura personale. Ma dietro l’immagine moderna c’è una carriera trentennale al servizio della Chiesa. Ordinato sacerdote nel 1991, ha svolto incarichi come viceparroco, responsabile d’archivio diocesano e conservatore del museo di arte sacra di Brescia, del quale è stato rettore per dieci anni.
Accanto al ministero sacerdotale, Fusari ha coltivato un’intensa attività accademica. Storico dell’arte con un dottorato, è docente all’Università Cattolica di Brescia, dove insegna storia dell’arte italiana e catalogazione. Ha pubblicato numerosi studi e libri, tra cui monografie su chiese, palazzi storici e artisti come Johann Carl Loth.
Sui social propone video e reel che uniscono pillole di storia dell’arte e riflessioni religiose, ottenendo migliaia di visualizzazioni. La sua scelta nasce dal desiderio di raggiungere persone lontane dai contesti ecclesiali tradizionali: ha iniziato addirittura dalle palestre, parlando di Vangeli e pittura rinascimentale a chi mai si sarebbe aspettato simili argomenti in quel contesto.
Don Fusari rappresenta così un modello nuovo di sacerdote, capace di coniugare tradizione e contemporaneità, con un linguaggio diretto e un’immagine insolita che lo hanno trasformato in un vero e proprio influencer spirituale.
Ascoltato dal sito Arttribune, ha raccontato questo di sé:
“Come è nata l’avventura dei social?
In maniera strana. Tutto parte dalla mia profonda curiosità e il mio modo di affrontare le tematiche religiose e artistiche. Il mio obiettivo era cercare intercettare interlocutori lontani da me, dispersi potremmo dire. Quindi ho deciso di partire dalla palestra, un luogo limite dove le persone non sono avvezze a parlare di salmi o di grandi artisti, e così ho iniziato a parlare con loro adeguandomi al contesto.
Essendo anche un esperto di comunicazione: pensa che bisognerebbe ripensare il linguaggio per avvicinare sempre più giovani alla storia dell’arte?
Io ho un’idea tutta mia. Io credo che la chiave sia non banalizzare. Tra i divulgatori che stimo c’è Jacopo Veneziani. Un ragazzo che è sul pezzo, studia e parla con convinzione della storia dell’arte e dei suoi protagonisti. Anche Philippe Daverio era molto bravo tanto da riuscire a intrattenere gente di tutte le estrazioni su temi molto alti, senza mai banalizzare gli argomenti.
Cosa vuol dire per lei comunicare?
Comunicare vuol dire tornare a sognare. Ricordo di aver letto la descrizione di un dipinto di Proust. Ecco in quella descrizione (e nelle sue ampie digressioni) prendeva forma una concatenazione di narrazioni ed esperienze che ti facevano entrare nell’opera, scandagliandone le diverse chiavi di lettura. Una lettura approfondita che si discosta dai superficiali selfi che immortalano sempre più persone davanti a capolavori come la Monnalisa o la Venere di Botticelli”.