
Cessione Iveco: “Quando chiudono le fabbriche si spegne una nazione”. Il duro attacco di un ex dirigente Fiat

Cessione Iveco “Quando chiudono le fabbriche si spegne una nazione”
Secondo Giorgio Garuzzo, storico dirigente di vertice in Fiat, quando la guida di una multinazionale si sposta all’estero, l’Italia finiscono per perdere completamente centralità e peso. Le sue parole sono nette: “Abbiamo impiegato sette anni a creare un grande gruppo europeo nel campo dei veicoli industriali, unendo realtà di Italia, Regno Unito e Spagna, arrivando perfino a integrare la Ford New Holland. E ora, all’improvviso, Iveco è diventata proprietà dell’indiana Tata Motors.”
Il problema, però, non è solo simbolico: è strutturale, economico e industriale. La vendita di Iveco segna una delle perdite più gravi avvenute sotto la gestione Exor, rappresentando un altro colpo inferto al cuore del sistema manifatturiero italiano. Dopo la cessione di Comau, Marelli e Fiat, anche Iveco passa di mano. Ma dietro a questi marchi si nasconde un’intera rete di piccole e medie imprese che dipendono dalla grande industria per sopravvivere.
“Il rischio – commenta Marco Pugliese, giornalista e analista economico – “è che dietro a questi nomi, apparentemente tecnici, crolli l’intero ecosistema produttivo che tiene in piedi migliaia di PMI. Nel primo semestre 2025 l’indotto metalmeccanico piemontese cresceva del 68%. A Foggia, Suzzara, Bolzano, centinaia di fornitori orbitavano intorno a motori, cabine, trasmissioni. Ora? Tutto in bilico. E nessuno può credere alla narrazione che Tata manterrà la produzione qui se non sarà conveniente. “Se avrà convenienza a spostare produzioni in India, lo farà”, ammonisce Garuzzo.
Il copione lo conosciamo – aggiunge Pugliese – “Fiat Ferroviaria, ceduta ai francesi di Alstom e poi delocalizzata; Teletra, sparita; Marelli, passata di mano tra fondi e creditori. È sempre la stessa storia. Si vende un pezzo di industria per fare cassa, ma si perde know-how, capitale umano, sovranità tecnologica. Inquesyo vuoto s’infila una retorica pericolosa: l’Italia può vivere di turismo, accoglienza, eventi. Una favola. Una nazione senza manifattura diventa dipendente. Senza manifattura non esporta innovazione, importa disoccupazione. OpenIndustria sta lavorando per costruire un’alleanza nazionale tra imprese, fondi pazienti e centri di ricerca, con l’obiettivo di salvaguardare i presidi strategici del made in Italy. Chiediamo che venga esteso il Golden Power anche alle filiere considerate “civili” ma vitali, come l’automotive, il ferroviario e la componentistica.
Servono strumenti fiscali che incentivino l’integrazione industriale tra PMI, la crescita dimensionale e il ritorno di competenze produttive oggi disperse all’estero. Vogliamo uno Stato arbitro e stratega, non spettatore o notaio delle dismissioni. L’Italia non è condannata al declino, ma deve scegliere. Ogni chiusura di uno stabilimento non è una ristrutturazione: è un taglio di futuro. E il futuro non si svende, si difende”.